Dicono di noi
Le citazioni più interessanti che ha ricevuto la Fondazione MIdA su libri, riviste di settore e siti web.
[…] Ci incontriamo alla presentazione dei migliori studi per fare dei ruderi sismici di Auletta, nel Vallo di Diano, una fonte di reddito. Il paese ha costituito la Fondazione MIdA (Musei Integrati dell’Ambiente) con la vicina Pertosa, per valorizzare il centro storico e le Grotte. Con l’Osservatorio sul Doposisma, il MIdA ha chiesto idee, via web; ne sono giunte da Spagna, Danimarca, Regno Unito, Germania, Messico e da tutt’Italia: 390 ragazzi, età media 33 anni, hanno lavorato al solo scopo di veder realizzati qui i progetti e ora li espongono.
A cosa si mira? A vivere decentemente con quel che c’è: molto, ma a rischio, fra abbandono per deprezzamento e distruzione per eccesso di consumo. Si vuol costruire un buon indice di “Felicità interna lorda”, con il recupero del “Sentimento dei luoghi”. Manuela Cavalieri, che guida questo progetto, spiega che è necessario “ricomporre una ‘mappa sentimentale’ del territorio, un racconto corale dei luoghi”: quando li conosci (“li senti” direbbe Arminio), non ti sono più indifferenti. A partire dal tuo paese.
Il progetto rientra fra quelli messi in piedi dall’Osservatorio sul doposisma, diretto da Antonello Caporale, giornalista e scrittore, nato su questi monti. “Il Sud ha smarrito il sentimento verso i suoi luoghi” insiste. “La furbizia si è purtroppo fatta sistema, e ciascuno ha iniziato a scorticare le pietre e le vallate, le campagne e i paesi. Chi non si è integrato al sistema è fuggito: sconfitto e smarrito davanti a una realtà così crudele. Riprendere il sentimento, la cura delle nostre cose, è divenuta una necessità.” Chi stesse per liquidarle come belle parole, si fermi in tempo: su questi sentimenti, si sta costruendo un’economia, perché “l’unico futuro possibile è conservare memoria di noi stessi e rispondere ai bisogni con quello che i nostri luoghi esprimono”.
MA LA MEMORIA ha bisogno di qualcosa su cui posare gli occhi, cui ancorarsi. Così, se vedi che dei resti vengono salvati per restaurarne la funzione e la storia, restituisci loro il valore che avevano perso; di quel valore ti arricchisci, perché è del tuo paese che si tratta, del tuo territorio. Con i muri rialzati, ricomincia il racconto che era stato interrotto.
“Dobbiamo mitigare la nostra furia” continua Caporale (è ancora l’idea di “Modernità” definita da Arminio e, diversamente, da Cassano): “Una eccitazione collettiva che invece di dare felicità, deprima, invece di farci avanzare ci rende immobili e perennemente stanchi”.
Ha ragione: questa è una malattia. È l’intuizione di Oliver Sacks, il neurologo autore di Risvegli (ne ricordate il film con De Niro?): l’immobilità catatonica di certi pazienti era dovuta all’aumento parossistico di tanti tremori e movimenti incontrollati che, contrastandosi a vicenda, producevano la quiete assoluta (visto che sapevate già della paralisi indotta da eccesso di agitazione?).
Ermete Realacci (autore di Green Italy e, con Antonio Cianciullo, di Soft economy), per raccontare cosa ci è successo, usa il mito di Anteo, figlio della Terra (Gea, per i greci) che Ercole non riusciva a sconfiggere, perché, ogni volta che lo schiacciava al suolo, quello riacquistava le forze della madre. Quando l’eroe lo capì, lo tenne sollevato e lo strozzò. “Se perdiamo, è perché abbiamo perso il contatto con la nostra terra” dice Realacci. E l’Ercole moderno ci sta strozzando. Ma il numero di quelli che se ne accorgono cresce.
Fabrizio Barca è il primo ministro per la Coesione Territoriale nella storia d’Italia: sul sito del suo dicastero, con un clic, si può seguire il grado di avanzamento dei progetti; all’intervistatore del “Fatto”, rispose via twitter: “A Brux abbiamo (It-Uk-Pl) cambiato regole per spendere fondi comunitari dal 2014: semplicità/risultati/azioni”. A cena gira fra i tavoli, come il padre della sposa; a tutti domanda: rende onore al detto arabo, secondo cui, Allah ci ha dato due orecchie e una bocca, perché ascoltassimo il doppio, parlassimo la metà (io, invece, quel giorno ho straparlato un po’…).
“Quindici anni fa” confida “ero convinto che la differenza di ricchezza prodotta a Nord e a Sud misurasse la distanza da colmare. Oggi ho capito che aveva ragione chi sosteneva che non la ricchezza in sé, ma la qualità dei servizi, della vita e dei luoghi andasse considerata.”
Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione Con Il Sud era di quelli che lo dicevano già. Ma, nel frattempo, avverte che è cambiato qualcosa di decisivo: “Il Sud ormai non aspetta più di ricevere soluzioni; è il territorio stesso a produrre idee e a svilupparle”: chiede di essere aiutato, se possibile; o almeno non frenato (Isaia Sales, in Napoli non è Berlino, osserva che: “Il Sud è cresciuto a tassi notevolissimi negli anni Cinquanta e Sessanta pur avendo all’epoca una classe dirigente locale tra le peggiori della sua storia”. Semplicemente, la politica nazionale non ostacolava quella crescita).
Perché “dove il Sud va ben” aveva appena detto Barca “va bene il Centro e come il Nord”. (Pur se penalizzato da circostanze ben più sfavorevoli, per l’assenza di infrastrutture: strade, ferrovie, aeroporti; credito più caro; pressione criminale. Come dire che, per stare alla pari, deve fare di più. E ci riesce.)
Borgomeo è un ottimo conoscitore delle cose di cui parla. E qui ha una robusta dimostrazione della fondatezza di quanto ha appena detto. Francescantonio D’Orilia, Virgilio Gay, Mariana Amato (presidente, direttore e direttrice scientifica di MIdA) enumerano le iniziative sorte dal territorio, per il territorio. Io sono un sentimentalone, mi commuovo, non faccio testo, ma l’elenco fa impressione e conforta, eccone un esempio che agli stupidi può sembrare minimo, ma su cui Caporale insiste, a ragione: “Fra le nostre coltivazioni tipiche c’è il carciofo bianco. Una nostra ricercatrice ha scoperto che dal gambo (la parte che si butta, lo scarto) si estrae un colorante biologico di altissima qualità a basso costo, buono per l’edilizia e per gli alimenti, ottimo persino come caglio per il formaggio!”.
Come dire che da rifiuto sorge una nuova economia, avanzatissima ed ecosostenibile. Tanto che, con quel colore, si vorrebbero dipingere i muri delle scuole. Il ministro Barca spiega come favorire, a norma di legge, l’impresa locale (se in Lombardi sono arrivati ad escludere, dagli appalti per l’Expo di Milano tutte le imprese oltre il raggio di 300 chilometri…). E propone esempi, di assoluta correttezza ed efficacia. “…E poi” scherza “gli alunni potranno leccare i muri, sempre che i carciofi piacciano anche a loro”.
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[…] Il flop delle zone industriali
Cosa resta, oggi, delle 20 nuove aree industriali volute a costi stratosferici dopo quel sisma visto come un grande affare, al punto che i comuni “terremotati” da 36 salirono in poco tempo addirittura a 687? Cosa resta di quella corsa ai soldi che vide il sindaco di Grottolella, escluso dalla lista perché il sisma non aveva fatto cadere dai tetti neanche un coppo, far causa al Tar per avere lui pure le provvidenze da terremotato?
Risponde il rapporto 2011 dell’Osservatorio permanente sul doposisma, diretto dal salernitano Antonello Caporale, dal titolo “La fabbrica del terremoto. Come i soldi affamano il Sud”. E accusa: “Gli interventi in Irpinia e nelle zone limitrofe furono massicci in termini di risorse economiche mobilitate, ma incisero pochissimo sul tessuto sociale ed economico dell’area. […] In definitiva, gran parte degli interventi del governo centrale furono fatti con un occhio più alla propaganda politica che a una reale incisività sullo sviluppo della zona, con il risultato che lo stato fece un grosso sacrificio per ottenere risultati molto scarsi”.
“Quanto” SCARSI? La risposta è nel rapporto curato da Teresa Caruso, Lucia Lorenzoni, Pietro Simonetti, Stefano Ventura e Nicola Zambi su dati Bankitalia e Investisud: nelle 20 aree industriali erano previste 255 aziende e 13.805 dipendenti che avrebbero dovuto a loro volta far sbocciare altre fabbriche e altri dipendenti. Nella realtà, trent’anni dopo, le fabbriche ancora aperte nel luglio 2011 erano 168 e gli addetti 6804, cioè meno della metà del previsto. Ma questo in generale.
Se a Morra De Sanctis o Porrara le cose sono andate meglio che nelle più rosee speranze, qua e là le dimensioni del fallimento sono catastrofiche. In provincia di Potenza 1846 addetti su 6062 previsti: meno di un terzo. A Valle di Vitalba 256 su 945. A tito 411 su 1091. A Calitri 193 su 766. A melfi 121 su 990. “Ma sono numeri ufficiali forniti dalle Asi, le aziende di sviluppo industriale, che hanno tutto l’interesse a fare apparire le realtà più vitali,” spiega Stefano Ventura che dell’Osservatorio è uno degli animatori. “In realtà molte industrie sono “quasi chiuse” e tanti dipendenti in cassa integrazione o in mobilità.” Per non dire di Nerico: posti di lavoro previsti 344, occupati fissi nell’autunno 2013 solo 18.
Spiega il sito “Investisud.it” che l’area è “in territorio pianeggiante e completamente infrastrutturata” e che ha “un’estensione complessiva di 176.000 m2” ed è “comodamente accessibile dalla strada statale 7 (Ofantina Bis)” e che “la viabilità interna è ottima” e che “la depurazione dei reflui, sia industriali che civili, avviene mediante due efficientissimi impianti, collocati all’interno dell’area” e sono assicurati pure “pulizia e manutenzione ordinaria, con frequenza mensile di strade, parcheggi e opere a verde; verifiche, controllo e manutenzione ordinaria dell’impianto di pubblica illuminazione, con frequenza quindicinale; raccolta e smaltimento Rsau depositati nei cassonetti stradali, con frequenza quindicinale”… Macché: non ci investe nessuno.
Certo, alcuni tentativi hanno avuto successo. Oltre a quelli che racconteremo nel capitolo finale sul Mezzogiorno che funziona, va ricordata almeno la Ferrero di Balvano, in provincia di Potenza. Quando fu costruita la fabbrica, a mille metri di altezza, con costi da brivido, la cosa finì alla commissione parlamentare presieduta da Scalfato davanti al quale il sindaco del paese spiegò che l’area era stata piazzata là “perché ce l’ha chiesto la Ferrero, dice che lassù le merendine lievitano meglio”.
Trent’anni dopo, lo stesso Osservatorio d° atto all’impresa piemontese di aver mantenuto i patti: “Tre delle sei aziende previste sul territorio di Balvano non hanno mai aperto o poco dopo hanno chiuso. Dei 450 addetti, oltre l’85 per cento sono occupati presso la Ferrero. E di tutte le aziende delle 20 aree industriali realizzate con i soldi della 219 solo l’azienda di Alba ha raddoppiato gli addetti previsti”.
Per il resto, di quella stagione del dopo terremoto che secondo Paolo Cirino Pomicino vide arrivare al Sud “più soldi che in cento anni di unità d’Italia”, Dio ci scampi. Troppe incursioni settentrionali interessate solo al saccheggio di contributi, come dimostra in Leghisti e sudisti Isaia Sales, denunciando industriali padani che usufruirono delle sovvenzioni solo “al fine di traferire meramente impianti produttivi localizzati altrove” o addirittura per portare a casa “nelle aree di provenienza macchinari e attrezzature finanziati per lo sviluppo delle aree danneggiate”.
Troppi soldi alla camorra, come accusò l’alto commissario per la lotta contro la mafia Domenico sica, alla fine degli anni ottanta, citando, come esempio, il caso di Bitum Beton il cui ingresso nel mercato “avvenne in concomitanza con l’inizio delle opere di ricostruzione e produsse un effetto dirompente” coinvolgendo perfino il colosso Cmc della Lega delle cooperative.
Troppi deragliamenti dei pubblici denari dall’Appennino irpino-lucano all’area partenopea, come denunciò lo stesso De Mita: “Tutti parlano sempre dell’Irpinia ma lo scandalo è na-po-le-ta-no. […] La verità dell’Irpinia, dove il terremoto c’è stato, ha avuto 3000 morti e 6000 miliardi per ricostruire le case. Il resto è andato a Napoli, dove il terremoto non c’era stato, per scopi che nulla avevano a che vedere con la ricostruzione”.
Un’accusa confermata in un’intervista al “Corriere” dal generale Carlo Jean, paracadutato come coordinatore dei soccorsi dopo una sfuriata di Sandro Pertini contro i ritardi: “Lì a Napoli era successa una cosa spaventosa. Il 7 dicembre 1980 il sindaco Maurizio Valenzi aveva dichiarato 350.000 terremotati. Erano più di quelli del cratere. Ogni giorno gli architetti comunali “producevano” 15-00 senzatetto. Zamberletti ci incaricò allora di fare un nucleo speciale di verifica. Scendemmo in un centinaio. Molti erano architetti del Nord. Ci accusarono di essere i nuovi colonizzatori piemontesi. Dopo qualche giorno di ispezioni fatte sotto la protezione dei carabinieri il ritmo dei senzatetto scese molto. Il 17 dicembre il sindaco disse che i terremotati erano 40.000”.
Risultato finale? Oggi, secondo l’Osservatorio, le aree industriali “appaiono per lo più desolate, deserte, lasciate morire per inedia”. Il tutto dopo aver inferto al territorio ferite profonde. Tanto da indurre già allora il presidente del Wwf, Fulco Pratesi, ad appellarsi al Quirinale: “Nuovi crateri vanno aprendosi ancora oggi nelle aree del terremoto del 1980, ma non si tratta di fenomeni sismici…Centinaia di ettari di terreno ruspato; fiumi come il Sele e l’Ofanto aggrediti fin sulle rive: lo stupendo paesaggio della Campania interna devastato…”.
E non imparano mai niente, niente, niente. È questo che fa montare il sangue alla testa: gli “occasionisti” sempre pronti a buttarsi sul terremoto successivo non imparano mai niente. Sepolti i morti, pace all’anima loro, ogni scossa è occasione di fare affari, affari, affari. Come è tornato a succedere in Abruzzo […]
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[…] Miracolo sul Tanagro
Non basta essere dei gran lavoratori per restare al Sud. Ci vuole creatività. Spirito di iniziativa. Capacità di saper cogliere un’occasione. Come per esempio quella colta dai ragazzi protagonisti dell’avventura eco-culturale nella Valle del Tanagro, tra la provincia di Salerno e la Basilicata. Siamo nel cratere del terremoto del 1980. Una quarantina di chilometri a sud di Eboli. Una terra di grande povertà e sorprendente bellezza, destinata, negli stereotipi di chi vede il Mezzogiorno come un paradiso perduto, a vivacchiare di sussidi pubblici.
La natura ha però regalato alla gente del posto un dedalo di grotte meravigliose che si estende per chilometri. Per anni le aveva gestite un commissario. I comuni di Pertosa e Auletta, 714 e 2440 abitanti, divisi da due chilometri, si azzuffavano come galli sulla proprietà e quel patrimonio naturale annaspava nel disinteresse, ma chi spartisce gioisce, dice l’antico adagio. È bastato porre fine alla battaglia delle carte bollate e affidare la gestione a una fondazione dentro i due comuni per scoprire un piccolo tesoro.
Le grotte di Pertosa-Auletta, affidate a un gruppo di giovani, vengono oggi visitate da 70.000 persone l’anno. Duecento di media al giorno. Sei volte di più, dice la banca dati del Ministero dei Beni culturali, dei visitatori paganti (11.989) che nel 2012 sono entrati in tutti i musei e tutti i siti archeologici della Calabria messi insieme. Il triplo dei 24.145 turisti entrati dopo aver pagato il biglietto nella famosa Certosa di Padula, che è a un tiro di schioppo.
Per dare un’idea di cosa significhi per l’area, basti un dato: il fatturato delle grotte si aggira intorno ai 6000.000 euro, cifra pari per dimensioni a quasi tutta l’Irpef (circa 700.000 euro) pagata allo stato dagli abitanti di Pertosa. Superiore di ben 35 volte all’incasso 2012 di tutti i beni culturali statali del Molise. E circa 7 volte maggiore rispetto agli introiti (87.0000 euro) della Certosa di Padula, che ha il doppio degli addetti.
E questo è il bello: i 17 posti di lavoro di Pertosa-Auletta non sono posti incerti calati dall’alto. Sono posti di lavoro veri. Non assistiti. Che rispetto alla popolazione dei paesi valgono quanto un’impresa da 1400 dipendenti a Verona o da 17.000 a Milano e dintorni.
E così sono veri i posti di lavoro che si sono procurati per due mesi l’anno due giovani che gestiscono il via vai degli appassionati di rafting sul fiume Tanagro: nel 2012 ne sono arrivati 3000 e ciascuno ha pagato 35 euro. Totale, oltre centomila euro. E sono veri (e giovani) i 40 produttori del carciofo bianco di Pertosa, una specie alimentare che rischiava l’estinzione e che ora è un presidio Slow Food, e dai cui scarti vengono estratte anche tinture naturali. Come sono veri tutti quei bed & breakfast puntati un po’ dappertutto. E veri i maneggi, veri i negozi specializzati in attrezzi per speleologia…
Una piccola ma importante rinascita innescata dallo spirito di iniziativa. Quello del giornalista Antonello Caporale, che si mise in testa di creare a Pertosa l’Osservatorio permanente sul doposisma. O del sindaco un po’ visionario Franco D’Orilia, che oggi è presidente dell’Associazione delle grotte turistiche italiane e non ci stava ad affogare nel vittimismo. Men che meno a piangere per l’eternità sulla sciatteria di chi aveva costruito per i turisti, coni soldi della Cassa del Mezzogiorno, un gran parcheggio inutilizzabile a due piani: troppi bassi per i pullman. Chi li aveva i soldi per abbatterlo e rifarlo? È diventato un piccolo museo e sede di quell’Osservatorio che produce studi e ricerche. E intorno alla Fondazione, presieduta dal sindaco, ha preso corpo una piccola speranza. Vi chiederete: e come mai la cattiva politica non ci ha messo le mani sopra? “Abbiamo fatto inserire nello statuto che le cariche nella Fondazione venivano rigorosamente ricoperte a titolo gratuito,” ride D’Orilia.
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Le grotte come risorsa ambientale e turistica
[…] Secondo i dati forniti da Francescantonio D’Orilia, Presidente dell’Associazione delle Grotte Turistiche Italiane (AGTI) oltre che Presidente della Fondazione MIdA e Grotte diPertosa-Auletta, le grotte turistiche italiane sono visitate ogni anno da oltre 1 milione e mezzo di visitatori e generano un fatturato annuo di circa 20 milioni di euro, laddove si considerino anche i servizi collaterali alle visite delle grotte, come, ad esempio, gli ingressi ai musei speleologici, i bookshops, la vendita di foto e gadgets in prossimità delle grotte. Si stima che, considerando anche l’indotto, ovvero i servizi resi dai soggetti diversi dagli enti gestori delle grotte come i servizi di ristorazione, le strutture ricettive, le attività commerciali o sportive, il fatturato annuo si raddoppia.
Il turismo speleologico, ovvero il turismo legato alla scoperta dell’affascinante mondo delle grotte, è dunque una preziosa risorsa economica per molte aree e in particolare nel nostro Paese, che vanta una grande quantità di cavità naturali attrezzate per la visita in cui è possibile passeggiare in tutta sicurezza. Le grotte turistiche italiane sono tipicamente associate a paesaggi carsici presenti in aree specifiche del territorio nazionale. Queste aree si riconoscono per la presenza in affioramento di rocce con caratteristiche di solubilità da parte delle acque naturali e si accompagnano a caratteristiche morfologiche molto riconoscibili come doline, valli cieche e appunto grotte.
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La grotta, un fiume e un veterinario dantesco
Le grotte di Pertosa ricordano l’Inferno dantesco. Non che qui si dividano i buoni dai cattivi. L’indole è mite e gli ospiti sono sacri e pure benedetti. Ma, per entrare, bisogna attraversare un fiume a bordo di una barca trascinata a mano, grazie a una rete di corde, dalle guide. E questo ricorda l’Acheronte e pure “Caron dimonio, con occhi di bragia”.
E già questo basterebbe per svegliare la curiosità. E, infatti, nel 2017 ben 60mila intrepidi curiosi hanno solcato questo Acheronte buono, che si chiama Negro, per entrare in uno dei complessi sotterranei più curiosi che ci siano in giro. Anzitutto, le grotte di Pertosa sono grandi, tanto estese che non c’è una mappatura completa. E questo non può aumentarne il fascino.
Come quello del fiume, il Negro, che l’attraversa. E chi vuole addentrarsi – novello “Indiana Jones” – lo fa in un percorso accidentato, tra mulinelli d’acqua e spigolose stalattiti e stalagmiti. Uno spettacolo quasi indescrivibile che tocca l’apice quando si arriva alla sorgente. La vita della grotta.
Le grotte di Pertosa sono un tesoro nascosto. Poco vicino scorre quella che una volta si chiamava Salerno-Reggio Calabria e ora si chiama “A2 del Mediterraneo” con centinaia di migliaia di turisti che l’estate corrono verso il mare della Calabria e della Sicilia. E che sfiorano un tesoro a cui si dedica con passione un gruppo di uomini e donne.
“Perché – spiega D’Orilia – conoscere il proprio tesoro è il primo passo per renderlo ancora più ricco.
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Nel Cilento spopolato si riparte da una grotta
“La forza generativa di un bene” Di un bene culturale […] E in effetti un germe infilato nella fessura di un pilastro che va perdendo il suo intonaco mi pare di scorgerlo a Pertosa, non in un edifico carico di storia, ma in un parcheggio a due piani, poco distante dalle Grotte dell’Angelo, retto da possenti colonne bianche sormontate da un disco che simula un capitello dorico. Il parcheggio serviva per ospitare le macchine e i pullman di chi avrebbe voluto visitare le grotte, un fantastico percorso speleologico aperto ai piedi dei monti Alburni, nel Cilento, una settantina di chilometri a sud di Salerno. […] Il parcheggio non ha praticamente mai funzionato. Almeno al piano di sotto. Qui non ricordano bene se sia stato costruito prima o dopo il terremoto del novembre 1980. A me sembra un’opera esemplare di quella stagione enfaticamente denominata “ricostruzione”, perché ne ha i caratteri del dissennato gigantismo. Ma potrei sbagliarmi. E in fondo non ha importanza collocarlo o meno fra gli sperperi di quegli anni. Basta ricordare che, forse per un difetto di progettazione, se al piano di sopra, al quale si accedeva direttamente dalla strada, erano parcheggiate tante macchine, al piano di sotto non riuscivano ad arrivare i pullman. Tenuto vuoto per alcune decine di anni, il piano interrato ora accoglie un Museo del Suolo, il primo del suo genere in Italia, e mi pare che l’essere collocato sotto il calpestio garantisca un punto d’osservazione scientificamente privilegiato a un museo di questo tipo, così didattico e interattivo. Poco più in là, sempre dove avrebbero dovuto parcheggiarsi i pullman, c’é la sede di un’associazione che organizza rafting nelle anse turbinose del fiume Tanagro e il free climbing sulle pareti che lo fiancheggiano. A Pertosa sono arrivato insieme a Antonio Di Gennaro, agronomo, rigoroso investigatore delle terre campane, e a Gabriella Corona, ricercatrice del Cnr, condirettrice della rivista “Meridiana”, studiosa di storia dei paesaggi meridionali, all’incrocio fra natura, vicende antropiche e sociali. Lasciata l’autostrada Salerno – Reggio, ci siamo inabissati lungo i tornanti della gloriosa Statale 19, la strada delle Calabrie, fino a non molto tempo fa l’unico tortuoso budello per raggiungere la punta dello stivale. Pochi, ripidi chilometri, percorsi con cautela in mezzo a una vegetazione che questa estate piovosa ha reso rigogliosa e tenace e che, mi spiega Antonio Di Gennaro, segna il passaggio dai caratteri mediterranei a quelli appenninici, contenendoli entrambi […] Antonio mi racconta anche lo spopolamento di questo e di altri lembi cilentani, che lui frequenta rintracciando con pazienza e ostinazione le persone che invece non se ne vanno o tornano o, addirittura, approdano. […] E Pertosa? “Pertosa non fa eccezione. Ora gli abitanti sono introno ai 600. Fra i seicento abitanti c’è Francesco D’Orilia, veterinario, classe 1959, capelli bianchi, occhi chiari, viso rotondo. […] Ma Francesco rimase a Napoli, si laureò, iniziò la sua carriera e si sposò. Nel 1996, però, da Pertosa, arrivò a Francesco un invito pressante: candidarsi a sindaco. Rispondere sì implicava tante conseguenze. […] Da Pertosa si andava via, per studiare, per lavorare e, tanto più dopo il terremoto, era difficile compiere il cammino inverso, se non d’estate, per un paio di settimane, quando dal Nord o dall’estero o anche da Napoli si tornava e ci si incontrava in piazza, mescolando allegrie e tristezze. Un’altra conseguenza Francesco voleva quasi provocatoriamente produrla, sfidando persino un’antica bega di campanile che, lo avvisarono i suoi compagni, era ben più tenace delle divisioni politiche. […] Infine narra come nacque la fondazione MIdA […] La fondazione MIdA vide la luce nel 2004, un anno prima che D’Orilia lasciasse la carica di sindaco, promossa dai due comuni riappacificati, Pertosa e Auletta, dalla Regione Campania e dalla Provincia di Salerno. Non so quanto c’entri il re della Frigia, al quale Dioniso conferì il potere di trasformare in oro tutto quel che toccava. Ma qualcosa mi pare abbiano in comune la mitologia e quest’avventura, che però prese a decollare solo alcuni anni dopo, quando D’Orilia ne assunse la presidenza. MIdA è un acronimo per Museo integrato dell’ambiente. La parola “museo” non dice tutto, anzi non rende precisamente l’idea. La fondazione gestisce la grotta, un museo di speleo-archeologia. ospitato nella piazza di Pertosa in un ardito edificio postmoderno, e il Museo del Suolo. “Noi non siamo superficiali”, c’è scritto sul retro delle magliette rosse indossate dai dipendenti della fondazione, quattordici a tempo pieno, sette part-time. Accanto, intrecciate ai beni culturali, fioriscono altre iniziative della fondazione: la conoscenza, le indagini sulla storia del territorio cilentano, sul formarsi del paesaggio e degli insediamenti in quest’area intorno al fiume Tanagro; poi il sostegno e la promozione di attività produttive, agricole in primo luogo, ma non solo; quindi una fiorente attività di editoria. D’Orilia colloca l’origine di queste iniziative nell’elaborazione del trauma che qui ha prodotto il terremoto del 1980. […] Nacque finanziato dal MIdA, un osservatorio permanente che ora custodisce studi, documentazione e analisi sui disastri, si propone anche dome “sismografo sociale” e bandisce borse di ricerca (presidente ne è stato fino a qualche tempo fa, il giornalista Antonello Caporale, ora l’osservatorio è guidato da Stefano Ventura). Poi al Museo del Suolo un’installazione multimediale racconta, come fosse un notiziario tv, i grandi sismi della storia. Fra i dipendenti a tempo pieno della fondazione c’è Pierino Di Blasio. Ci aspetta all’ingresso della grotta e ci guida su un barcone che solca il sotterraneo fiume Negro. Lo manovra tenendosi con le mani a un cavo metallico che corre lungo tutto il percorso acquatico. Pur avendo solo la licenza media, Pierino ha seguito corsi di speleologia, ragiona di concrezioni antiche e di concrezioni attive, dei canali anastomosati che indicano il livello dell’acqua raggiunto durante le piene, di vaschette, di pisoliti e di stalagmiti turrite. È esperto poi di civiltà palafitticole: visitabile dal 1932, la grotta, racconta Pierino, aveva rilievo speleologico e turistico e solo negli ultimi anni si è messo in evidenza l’aspetto archeologico, recuperando, proseguendo e valorizzando gli scavi condotti a fine Ottocento, ma rimasti praticamente sconosciuti, che avevano portato alla luce reperti risalenti alla seconda metà del II millennio a.C. – un complesso di palafitte, appunto. Essa fu luogo di culto, prima pagano poi cristiano, e quindi fu intitolata a san Michele Arcangelo, santo tuttora celebrato dalla grande folle che accorre il lunedì di Pasqua. […] La fondazione MIdA ha un comitato scientifico presieduto da Mariana Amato, che insegna Agraria all’Università della Basilicata. Intorno alla grotta ruotano tante iniziative, come intorno alla Basilica di Santa Maria della Sanità. Intanto i due musei. Quello del suolo ha beneficiato della consulenza di Antonio Di Gennaro, Francesco Innamorato e Fabio Terribile, ed è stato allestito dall’architetto Fabrizio Mangoni, che ha curato gli apparati multimediali. Ma la visita non è affidata solo a diavolerie interattive. I ragazzi, soprattutto, possono toccare con le mani quattro campioni di suolo prelevati dalla superficie fino a scendere in profondità per almeno un paio di metri. Sembrano quattro piloni fatti a strati e attaccati a una parete. […] Sono come dei libri aperti che raccontano le diverse fasi di una storia millenaria che ha depositato lì le sue tracce geologiche, fino ai periodi più recenti, quelli in cui il suolo viene relegato alla sola funzione di supportare qualcos’altro, neutrale, anonima piattaforma. Il pavimento sul quale ci muoviamo. E invece il museo racconta (uso le parole di Antonio Di Gennaro) “che sotto i nostri piedi, nei diversi strati del suolo, nella sua porosità, nelle sue complesse interfacce biochimiche, si compiono i fondamentali processi dai quali dipende il funzionamento dell’intero ecosistema”. Il suolo che dà vita a questo paesaggio, ma che la sera di domenica 23 novembre 1980 ondulò, si sollevò e poi si riabbassò, è la “pelle della terra”, la “scatola nera”, il “registratore” in cui “rimangono impressi l’intera evoluzione dell’ecosistema visibile e i grandi eventi naturali che hanno condizionato la sua storia”. Anche qui nel Cilento, come nella Sanità, si ragiona mettendo il sopra in relazione con il sotto, e il sotto ha una vitalità che non resta confinata oltre la suola delle scarpe. Il racconto del suolo rianima il Cilento in via di abbandono, area interna e luogo di margine esemplare, inocula una sensazione primordiale e, con la grotta, riporta il discorso all’origine di tutto, come se lì si trovassero gli appigli per ripartire. La grotta è un luogo materno, protetto, un ventre capiente e salutare e ha la forza generativa. È luogo di studio, prototipo di un ambiente che necessita di cura, di manutenzione minuta. Ospita visitatori, spettacoli teatrali e musicali. Custodisce zone inaccessibili, come quella destinata al ricovero dei pipistrelli, preservandoli dall’estinzione. Il suolo di Pertosa, poi, è quello in cui prospera il carciofo bianco. Sono sessanta gli ettari in cui lo si coltiva, mi dice D’Orilia addentando finalmente la scamorza. Appartengono ai comuni di Pertosa e Auletta e poi di Caggiano e Salvitelle. E basta. In nessun altro luogo del pianeta, fra aprile e maggio spunta questo frutto rotondo, verde chiaro tendente all’argento con pallide venature rosse, senza spine e con foglie tenerissime. Si mangia fresco oppure si conserva in olio extravergine – altro prodotto d’eccellenza di questi luoghi, con le antiche piante che convivono con i carciofeti. Il carciofo bianco è un presidio Slow Food dal 2203, prodotto da una trentina di piccole e piccolissime aziende, ora riunite in un consorzio, e nelle quali lavorano diversi giovani agricoltori. La fondazione e D’Orilia – questi quando era ancora sindaco – hanno collocato il carciofo bianco in un trittico che sale dalla grotta, attraversa il suolo e sfocia, appunto, in questo frutto carnoso. Sostengono i produttori, ne diffondono la fama, lo promuovono nelle fiere e lo fanno assurgere a simbolo. E poi lo danno da studiare, perché il carciofo bianco non è solo commestibile. Un’équipe guidata da Enrica De Falco, che insegna Colture officinali al Dipartimento di Farmacia dell’Università di Salerno, insieme all’associazione I colori del Mediterraneo, ha condotto una ricerca per estrarre dal carciofo coloranti vegetali da usare in diversi settori, dal tessile all’edilizia, sostituendo quelli di sintesi. Ne sono venuti fuori tre colori: l’oro MIdA, il Terra d’Auletta e il verde Pertosa. A cura della fondazione si svolgono corsi per appropriarsi delle tecniche di produzione del colore, concepiti come attrattori o anche solo come antidoto all’esodo. Al Museo del Suolo un’intera sala è destinata all’esposizione di erbari storici e moderni, legni, piante spontanee e antiche varietà di specie agrarie di questo territorio. Spicca la collezione di ventisette varietà di fagiolo, curata da Nicola Di Novella. L’esposizione svolge un’azione specifica per rafforzare l’identità del territorio e le si affiancano un lavoro con le scuole, i corsi di formazione, la promozione dei prodotti agricoli e naturali, spiega Mariana Amato. […] Mi manca un ultimo passaggio prima di risalire i tornanti che portano alla Salerno-Reggio Calabria. Ne ha fatto cenno D’Orilia, ed è Rosanna Alaggio che ci accompagna. […] Insegna Storia medievale all’Università del Molise, fa parte della fondazione e apre una breccia dalla quale si intravede il ripopolamento come questione di lungo periodo. Il giorno prima di questa visita a Pertosa si è concluso un ciclo di seminari tenuti da Alaggio, a Teggiano, Sassano, Sala Consilina e poi Padula, Auletta e Pertosa. Tema: il Cilento nel Medioevo e in particolare il ruolo del monachesimo italo-greco, bizantino. Le poche fonti superstiti, racconta Alaggio, descrivono un Cilento in gran parte spopolato e fu questa condizione che attrasse alcuni dei personaggi più rappresentativi del monachesimo ispirato a San Basilio, in fuga dalla Sicilia occupata dai Saraceni a partire dal IX secolo. I monaci andavano in cerca di solitudine e di eremi in cui rifugiarsi. E le grotte – Pierino ne contava oltre quattrocento- erano uno degli approdi prediletti. Qui si insediarono praticando l’esicasmo, ossia l’isolamento assoluto dal mondo e dai bisogni della vita materiale, immersi nella preghiera. […] Questo accadde in una prima fase. Poi, però, si andarono formando comunità cenobitiche e i monaci ottennero dai signori longobardi che governavano quelle regioni le risorse per costruire chiese e monasteri, ma soprattutto si videro affidati grandi possedimenti fondiari abbandonati perché li coltivassero. In tutto il Cilento sorsero abbazie, e anche lungo il corso del Tanagro vennero fondati Sant’Arsenio, San Simeone, Sa Pietro al Tamusso, Santa Maria di Pertosa, Santa Maria della Sperlonga a Palomonte e Sant’Onofrio a Petina. […] Intorno all’abbazia di Sant’Onofrio inizio il popolamento di quest’area, accorsero in molti a lavorare nell’abbazia. E da lì e intorno a Santa Maria di Pertosa, nacque l’abitato di Pertosa. Il fenomeno dei nuovi insediamenti suscitati dalle abbazie si ripeté in tante parti del Cilento, al punto che l’ottanta per cento dei comuni a sud del fiume Sele sono stati fondati a partire da insediamenti attratti dalle comunità italo-greche. Risalendo le curve della strada statale delle Calabrie cerco di scorgere l’abitato di Pertosa, ma più si arriva in alto più incombono le nuvole di questa scriteriata estate. Comincia anche a piovere e si allontana dalla vista il profondo anfratto in cui si apre la grotta dell’Angelo e in cui risuona il richiamo al ripopolamento di matrice bizantina avvenuto in età medievale. Alle mie spalle, senza poterlo più vedere, il circuito che tiene dentro le Grotte dell’Angelo, il suolo generoso del Cilento e il multiuso carciofo bianco. E mi sembra che un timbro di ceralacca sigilli le speranze di Francesco D’Orilia e di Pierino Di Blasio in maglietta rossa, il loro sguardo tenace e la potenza generativa che emanano i loro beni culturali.
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Magie
Gli stregoni meridionali sono capaci di grandi illusioni: trasformano le balle in presunte formule magiche. La più riuscita riguarda l’industria del turismo. La frasetta tipica è: Potremmo vivere soltanto con le nostre bellezze naturali. Se non lo si fa, ovviamente, è colpa dello Stato, non di noi meridionali che sprechiamo quelle bellezze tacendo sugli abusi edilizi, grandi illusioni: servizi inadeguati, perpetuando la carenza di professionalità. Lo certifica anche Confturismo: “Nel Mezzogiorno”, spiega l’associazione di categoria, “il problema è solo parzialmente legato alla scarsa dotazione infrastrutturale, mentre è fortemente connesso a dotazione e qualità media dei servizi”. Perché, guarda caso, anche nel Sud privo di strade e ferrovie, laddove l’accoglienza la sappiamo fare o abbiamo imparato a farla – nonostante lo Stato nemico – i risultati positivi si vedono eccome. E non parlo dei soliti esempi, Capri, Porto Rotondo o le Eolie. Ma del nuovo che avanza: Tropea, Matera, il Salento, luoghi che hanno spontaneamente lanciato la sfida della contemporaneità, riqualificando i propri territori e investendo in strutture, formazione e competenza. Luoghi dove hanno lavorato sodo, insomma.
Il mio preferito è Pertosa, nel Cilento, dove hanno rilanciato (ma sarebbe meglio dire lanciato dal nulla) le mirabolanti grotte che si estendono per circa tremila metri nel massiccio dei monti Alburni, unico sito speleologico europeo nel quale si può navigare un fiume sotterraneo tra stalattiti e stalagmiti. Un posto formidabile e sconosciuto ai più fino a una quindicina di anni fa. Non paga, la Fondazione MIdA, nel 2016 si è pure inventata il “Museo del Suolo”: duemilacinquecento metri quadrati di laboratori, filmati, installazioni multimediali, immediatamente diventati la gioia di migliaia di ragazzini sotto i quindici anni. Nulla di prodigioso, il museo è un lavoro ben fatto che ha seguito il suo percorso naturale: ideazione, progettazione, richiesta dei fondi europei, realizzazione. Purtroppo, nella gran parte del Sud, siamo molto lontani dalla naturalezza: si attendono miracoli. Ma pure i santi, ormai, si sono stufati di certe sconcezze.
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